INDIA, IL MONDO VEGETARIANO

 

 

 

 

UN COSTUME FIGLIO DELL’AHIMSA, LA NON VIOLENZA, UN PRINCIPIO PORTANTE DELL’ETICA INDÙ, CHE SI AFFERMÒ NEL PERIODO BUDDISTA.

 

 

In India essere vegetariani non è frutto di una scelta, né di una rinuncia. Ogni indù (l’82 per cento della popolazione) mangia solo quello che deve. Norme e divieti alimentari lo accompagnano fin dalla nascita. Se diventa vegetariano è perché è nato in una famiglia con analoghi principi. Il vegetarianesimo ha origine nei fondamenti di induismo, jainismo e buddismo. La sua base è l’ahimsa, la non violenza. Un principio portante dell’etica indù, nato nel periodo buddistico – tra III secolo a.C. e IV secolo d.C. – e ribadito più tardi con l’affermarsi del jainismo. I jaina non uccidono alcun essere vivente, rifiutano uova e derivati animali, i più integralisti mangiano solo vegetali da cui si può cogliere il frutto senza uccidere la pianta.

Contrariamente allo stereotipo, la maggioranza degli indù non è vegetariana, mangia pollame e ovini ma mai bovini. Perché la vacca è la madre che nutre il mondo. Diversamente dalla nostra antica società contadina, dov’erano i ricchi a nutrirsi di carne, in India sono i paria e le altre basse caste a consumarla. Solo un paria può macellare animali e vendere carne: lavori impuri. Il bramino, al vertice della gerarchia castale, si astiene anche dal contatto col macellato: fonte di impurità.

Norme che relegano i carnivori allo stadio più infimo della società e a volte trasformano il vegetarianesimo in un veicolo di auto-promozione socio-castale. Con alcune eccezioni: sono carnivore alcune alte caste guerriere, come i kshatriya e i rajput, quest’ultima discende dai re del Rajasthan. Mentre sono vegetariane alcune caste medie come gli artigiani. In modo integralista i vaishnava, seguaci di Vishnu. La grande maggioranza degli indù degli stati meridionali di Tamil Nadu, Kerala, Andra Pradesh e Karnataka. E gran parte delle donne: nutrirsi di vegetali è considerato più adatto alla sensibile natura femminile. Ed è opinione diffusa che la cucina vegetariana sia più sana, abbia proprietà nutritive pari, se non superiori, a quella onnivora e permetta di vivere più a lungo.

 

 

LE RICETTE VEGETARIANE SONO INFINITE

 

 

Ma il modo di abbinarle e servirle è simile. Nel centro-nord, da quattro a dieci verdure (solide o brodose ma sempre piccanti), il dhal (stufato di lenticchie) e il raita (verdure crude con yogurt) sono portate in tavola su vassoi rotondi di acciaio chiamati thali. Un nome diventato sinonimo di menu vegetariano. Sul thali, i katoris, le ciotoline piene di verdura, circondano riso, papad (cialde friabili), poori (focaccine fritte) o chapati (pani non lievitati detti anche roti).

Poorichapatiparotha (focaccia fritta) e i molti altri pani indiani sono usati per raccogliere e portare il cibo alla bocca. In India mangiare con le mani non è un’eredità primitiva, né il frutto dell’indigenza. Si crede che permetta di sentire il cibo: di percepire gli aromi e il nutrimento che contiene. Un costume che accomuna indù, musulmani, jaina, cristiani, buddisti e sikh, vegetariani e non. Nel sud verdure, riso e papad (non si mangia pane) sono serviti su una foglia di banano con una cucchiaiata di yogurt e una di infuocato achar (quarti di lime macerati nel peperoncino). Mentre nel nord si trovano molte alternative alimentari al thali, nel sud ci sono solo i masala dosa, crépe a base di riso e lenticchie rosse farcite di patate e inzuppate in brodi piccanti e creme di cocco, le stesse in cui si intinge l’idli, il disco di riso lesso che costituisce la prima colazione dei Tamil. Oltre a snack come somoza (sfoglie farcite di verdure) e pakora (frittelle di farina di ceci e ortaggi).

 

 

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