Cos’è la sostenibilità: significato, storia e futuro

 

La sostenibilità è un concetto che si presta a molteplici interpretazioni e declinazioni. Chiarirne il perimetro è fondamentale per garantirci un futuro.

 

La Terra oggi è la casa di 8 miliardi di persone, di cui soltanto una piccola minoranza vive in condizioni che possono essere definite agiate. Nella quale avremmo cibo per nutrire l’intera umanità, ma lasciamo morire di fame milioni di persone. Nella quale avremmo i mezzi per garantire un’istruzione ai bambini di tutto il mondo, acqua ed energiamedicine e strutture sanitarie. Eppure, ogni anno cinque milioni di bambini muoiono nei primi cinque anni di vita; 2,2 miliardi di persone non dispongono di servizi di distribuzione di acqua potabile considerati sicuri; circa metà della popolazione mondiale non ha accesso ai servizi sanitari di base. Nel frattempo, lo sfruttamento insensato delle risorse naturali ha distrutto enormi quantità di ecosistemi terrestri e marini, provocato desertificazioni, inquinamento, perdita di biodiversità. Mentre l’uso indiscriminato dei combustibili fossili ci ha fatti precipitare in una crisi climatica che, senza interventi, potrebbe trasformarsi in una catastrofe. Tutto ciò ha un colpevole: il nostro modello di sviluppo. Insostenibile dal punto di vista ambientale e sociale. E che però, paradossalmente, la quasi totalità dei governi di tutto il mondo continuano a difendere e proporre come soluzione. Quest’ultima, invece, passa per un cambiamento di paradigma. E per una parola che può rappresentare la speranza di un mondo diverso, più equo, più resiliente, più rispettoso della natura e dell’uomo. Una parola che può salvarci, a patto che non venga abusata e distorta: sostenibilità.

 

Il significato di sostenibilità in poche parole

Ma cosa si intende con questo termine? Per capirlo basta guardarci attorno. La maggior parte di noi, nella porzione fortunata del mondo, vive in case salubri, calde, con acqua pulita che scorre dai rubinetti, frigoriferi e dispense piene, paracetamolo pronto all’uso nei mobiletti in bagno. Si chiama benessere ed è il nostro presente. Se non cambieremo i nostri sistemi economici (e anche, almeno in parte, i nostri stili di vita) è però probabile che non sarà anche il futuro.

 

Esattamente come noi, infatti, anche i nostri figli e i nostri nipoti, per vivere, avranno bisogno di aria pulita, acqua pura, foreste e animali in salute. E risorse naturali, che oggi usiamo, semplicemente, troppo. Troppo: un’altra parola chiave che ci apre le porte del concetto di sostenibilità. Cos’è “troppo”? La realtà attuale, la fotografia del mondo che abitiamo, ci dice che per far sì che tutti abbiano di che vivere in salute, ciascuno di noi dovrebbe consumare le risorse della Terra in modo ragionevole.

 

Era il 1713 quando un contabile, scrittore ed economista sassone, Hans Carl von Carlowitz, si trovò ad affrontare una penuria di legno per costruzione. Per far spazio alle miniere, erano stati infatti abbattute enormi porzioni di foresta, senza preoccuparsi di un simile sovra-sfruttamento delle risorse naturali. “Dovremmo usare il legname – scrisse lo studioso – preservando le foreste. Dovremmo usare solo quello che i boschi sono in grado di rigenerare”.

 

Il rapporto Brundtland e i negoziati mondiali sul clima

Fu una delle primissime riflessioni sul concetto di sostenibilità. La cui definizione moderna è contenuta in un rapporto pubblicato nel 1987, intitolato “Our common future” (“Il nostro avvenire comune”) e redatto dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite, presieduta allora dal norvegese Ero Harlem Brundtland, al cui nome è associato il documento. Si tratta del testo che ha per la prima volta fornito un quadro di ciò che possiamo considerare sostenibile, e che è stato utilizzato come base di lavoro al Summit della Terra di Rio de Janeiro, nel 1992, che diede il via ai negoziati internazionali per la lotta ai cambiamenti climatici.

 

“Lo sviluppo sostenibile – spiegò il rapporto Brundtland – è un modello di sviluppo che risponde ai bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere ai loro”. Ove per “bisogni” si intendono “quelli essenziali dei più poveri, ai quali occorre dare priorità”.

Il principio di prevenzione e quello di precauzione

Ma a fronte del lavoro dei ricercatori, quali principi sono stati effettivamente integrati negli ordinamenti nazionali e nel diritto internazionale? Va detto che in materia ambientale non vi è una forte presenza di norme consuetudinarie, ma principalmente di norme di natura pattizia e principi non vincolanti espressi in una serie di dichiarazioni. Uno dei pochissimi casi che viene unanimemente considerato fonte vincolante di diritto internazionale tradizionale, poiché ha dato sviluppo a prassi, è l’arbitrato della fonderia di Trail (Trail Smelter Arbitration) del 1941 che ha dato vita al principio di prevenzione. Il caso vide contrapposti gli Stati Uniti e il Canada.

 

La sentenza condannò il Canada, paese ove era collocata la fonderia, in quanto responsabile dei danni provocati ai raccolti dei contadini americani dovuti ad emissioni tossiche nell’aria. Essa ha posto le basi per il concetto di illecito di “inquinamento transfrontaliero” il quale prevede l’obbligo da parte degli Stati di assicurare che le attività svolte sul proprio territorio non danneggino l’ambiente di altri Stati o aree soggette a sovranità statale.

 

In più, ha creato l’obbligo di informazione e consultazione degli stati minacciati o danneggiati da attività inquinanti in modo da creare negoziati riguardanti le modalità, i criteri e la localizzazione di tali attività. Il principio espresso in questa sentenza è stato poi successivamente codificato nel principio 21 della Dichiarazione della Conferenza sull’Ambiente umano delle Nazioni Unite tenuta a Stoccolma nel 1972. Esso è composto da due elementi: la garanzia della sovranità permanente degli Stati sulle loro risorse naturali e l’obbligo di non causare danni consapevoli o prevedibili all’ambiente di altri Stati o ad aree poste al di là dei limiti della giurisdizione nazionale degli Stati. Esso ha posto le basi sia per la Convenzione per la protezione dello strato di ozono che per la risoluzione 43/53 del 1988 ed è stato successivamente recepito nel principio 2 del citato Summit della Terra di Rio de Janeiro del 1992 che ha istituito la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (Unfccc).

 

Cos’è il principio o approccio precauzionale

Il principio o approccio precauzionale è un concetto nato negli anni Ottanta che prevede la necessità di agire per salvaguardare l’ambiente anche quando vi siano minacce evidenti ma non ancora accertate scientificamente. Esso va ben oltre il semplice principio preventivo come scaturito dal caso della fonderia di Trail poiché prevede anche azioni positive che possano evitare il danneggiamento a sistemi naturali. Quindi non solo divieto di mantenere comportamenti direttamente responsabili di un possibile danneggiamento ma anche necessità di porre in essere politiche finalizzate ad evitare che tali comportamenti possano verificarsi.

 

Gli Obiettivi di sviluppo del Millennio e quelli di Sviluppo sostenibile

Per tentare di fornire non soltanto definizioni chiare, ma anche e soprattutto obiettivi definiti, le Nazioni Unite hanno dato vita nel corso del tempo a due grandi iniziative: gli Obiettivi del millennio e quelli di Sviluppo sostenibile.

I primi furono lanciati nel 2000, con la Dichiarazione del millennio delle Nazioni Unite, attraverso la quale i 193 paesi membri dell’Onu si impegnavano entro il 2015 a:

  • sradicare la povertà estrema e la fame nel mondo
  • rendere universale l’istruzione primaria
  • promuovere la parità dei sessi e l’autonomia delle donne
  • ridurre la mortalità infantile
  • migliorare la salute materna
  • combattere l’HIV/AIDS, la malaria e altre malattie
  • garantire la sostenibilità ambientale
  • sviluppare un partenariato mondiale per lo sviluppo.

 

Tali target sono stati soltanto in parte raggiunti. Così, nel 2015 sono stati lanciati altri 17 Sustainable development goals, Sdg. Si tratta dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (in inglese Sustainable development goals, Sdgs) che compongono l’Agenda 2030, un piano globale per il Pianeta, le persone e la prosperità. I 17 Sdgs fanno riferimento a tematiche ambientali, sociali, economiche e istituzionali. Ciascuno di essi è suddiviso in una serie di target (in tutto sono 169) a loro volta misurati attraverso indicatori specifici. Per descrivere questo approccio olistico, si parla di “cinque P” dello sviluppo sostenibile: persone, prosperità, pace, pianeta, partnership.

 

I 193 paesi membri dell’Onu si sono impegnati a raggiungere questi obiettivi entro il 2030: si tratta di un percorso che non si limita alle istituzioni ma coinvolge tutte le parti della società, tra cui imprese, enti del terzo settore, mondo accademico, singoli individui, amministrazioni locali.
In Italia, la più importante iniziativa che diffonde la conoscenza dell’Agenda 2030 e monitora la sua attuazione è l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (Asvis). Si tratta di una rete che riunisce oltre 270 organizzazioni e, tra le altre cose, organizza ogni anno il Festival dello sviluppo sostenibile.

 

Il fondi per la sostenibilità e la tassonomia europea

Per ottenere questi obiettivi c’è una chiave, che si chiama finanziamenti. È inevitabile che qualunque transizione debba essere infatti sostenuta da fondi adeguati. Al contempo, occorre disincentivare tutti gli stanziamenti a favore di ciò che, al contrario, non è possibile considerare sostenibile. È in questa ottica che per anni l’Unione europea ha lavorato alla creazione di una “lista” di attività economiche che possono essere considerate, appunto, “sostenibili” dal punto di vista ambientale, anche al fine di guidare investitori e risparmiatori.

 

È da qui che nasce la tassonomia europea, che è stata oggetto di aspre discussioni tra europarlamentari, membri della Commissione di Bruxelles e paesi membri. Due temi, in particolare, hanno catalizzato la maggior parte del dibattito: il gas e il nucleare. Alla fine, entrambe le fonti di energia sono state considerate “sostenibili” dall’Unione europea, nonostante la prima sia una fonte fossile il cui uso ci allontana dagli obiettivi climatici fissati dalla comunità internazionale. E nonostante il secondo presenti una lunga serie di criticità: dalla gestione delle scorie al rischio di incidenti, dai tempi lunghissimi di costruzione delle centrali ai costi esorbitanti (e che tolgono risorse ad alternative pulite e sicure).

 

La sostenibilità ambientale, economica, sociale: le tre “gambe” dell’Esg

Fin qui, tuttavia, le istituzioni comunitarie si sono concentrate soltanto sugli aspetti ambientali e climatici. Ma un investimento, un business, una qualsiasi attività economica può essere considerata davvero sostenibile soltanto se rispetta anche altri tipi di criteri. In questo senso, da tempo è in uso il concetto di Esg: una sigla che sta per environment, social and governance (ambiente, sociale e governance) e che punta proprio a comprendere ogni aspetto della sostenibilità.

 

Per capire in modo semplice di cosa parliamo, può essere utile un esempio. Se si decide di costruire una mega diga per sfruttare l’energia idroelettrica, dal punto di vista climatico ciò può rappresentare effettivamente un’attività sostenibile: si tratta infatti di energia rinnovabile. Ma se per costruire tale struttura occorre, ad esempio, creare un enorme invaso che distrugge un ecosistema intero, spazza via villaggi, piccole economie locali, storia, cultura, è impossibile considerare tale opera in linea con criteri Esg.

 

Allo stesso modo, se quella stessa infrastruttura fosse impeccabile dal punto di vista ambientale e anche da quello sociale, ma costruita da un’impresa che a posto la propria sede in un paradiso fiscale, e che si rifiuta di essere trasparente nei propri bilanci o sulla propria struttura societaria, a mancare sarebbe una governance sufficientemente sostenibile.

 

Il rischio della sostenibilità per tutti: il greenwashing

La sostenibilità, dunque, rappresenta un concetto in evoluzione. Ma che affonda le proprie radici su dei principi che devono essere considerati comuni. Altrimenti, il rischio è che venga utilizzata soltanto per etichettare delle attività al fine di mostrare, ad esempio, un volto ecologico. È il fenomeno del cosiddetto greenwashing, che negli ultimi anni è diventato particolarmente diffuso, soprattutto tra le grandi multinazionali che, troppo spesso, vogliono mascherare i loro veri obiettivi.

 

Essere sostenibili è invece un approccio prima di tutto culturale ed etico. Se si vuole davvero rispettare ambiente, persone, diritti non può esserci spazio per sotterfugi, slalom e aggiramenti. Da quanto questo cambio di paradigma verrà diffuso in quel mondo, dipenderesti anni nà il futuro delle prossime generazioni.

 

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